La storia del surf
“Mentre osservavo quell’indigeno penetrare, su una piccola canoa, le lunghe onde al largo di Matavai Point, non potevo fare a meno di concludere che quell’uomo provasse la più sublime delle emozioni nel sentirsi trascinare con tale velocità dal mare”.
Queste le parole scritte sul diario di bordo, lui James Cook, esploratore, il primo europeo a osservare un uomo farsi trasportare dalle onde. Era a Tahiti nel Dicembre del 1777. L’anno successivo, approdando alle Hawaii, vide degli uomini in piedi su tavole lunghe cinque metri e mezzo scivolare sull’acqua.
Da quando i polinesiani praticano questa attività, non è dato sapersi, ma certamente la paternità della disciplina non può essere attribuita ad altri.
Stiamo parlando del Surf, in hawaiano he’e nalu.
Il significato? Scivolare sulle onde.
Uno sport che si avvicina più a un’esperienza mistica, in molti casi a un’impresa estrema, ma sempre con la scarica adrenalinica derivante dall’illusione di domare la forza del mare.
Tale disciplina era una faccenda profondamente spirituale: dall’arte di cavalcare le onde alla preghiera per una buona navigazione, ai rituali che circondavano la costruzione di una tavola. Non era solo un’attività ricreativa, ma anche un allenamento per i capi hawaiani e un mezzo per la risoluzione dei conflitti. I Re sostenevano di essere i più abili e competenti; avevano shapers (1) e spiagge personali in cui surfavano solamente con appartenenti alla stessa classe sociale: nessuno osava entrare in acqua con loro. Le persone comuni che lo praticavano godevano di speciali privilegi nelle cerchie reali, guadagnando lo status di “capi” in base alla loro abilità e resistenza fisica.
Durante il diciannovesimo secolo il surf subì un declino, i motivi furono molteplici. L’arrivo dei missionari cristiani che ne scoraggiarono la pratica, dovuto anche all’esposizione del corpo seminudo. La fine del sistema sociale Kapu nel 1819 che portò all’interruzione de il Makahiki (2), evento annuale della durata di tre mesi. L’attrazione verso le nuove culture con cui entravano in contatto, il minor tempo libero dovuto ai nuovi sistemi lavorativi e l’arrivo di malattie prima sconosciute sulle isole che decimarono la popolazione. Nel 1890 il surf alle Hawaii era quasi estinto e praticato in pochi luoghi dell’arcipelago, rischiando di finire dimenticato per sempre. Ma grazie alla dedizione di alcuni Re, fra cui David Kalakau, che vollero il ritorno della cultura hawaiana in tutte le sue forme, venne recuperata anche questa antichissima pratica.
Oggi è l’Aloha Festival (3) a riproporre tali riti.
Il battesimo sulla costa americana risale al 1885, quando alcuni hawaiani che frequentavano una scuola militare a San Mateo (California) si costruirono delle tavole e surfarono le onde alla foce del fiume San Lorenzo, Santa Cruz (California), davanti ad un pubblico meravigliato ed affascinato dalla loro abilità. Un altro contributo alla diffusione venne da Duke Kahanamoku, campione di nuoto, vincitore della medaglia d’oro alle olimpiadi di Stoccolma 1912 e Anversa 1920: nel corso dei suoi viaggi portò il surf sulle coste statunitensi ed australiane. Negli anni trenta il turismo alle isole Hawaii, proveniente da tutte le parti del mondo, gli diede ancora più visibilità. All’ingresso degli Stati Uniti nel secondo conflitto mondiale, l’arcipelago fu invaso dai militari, le spiagge disseminate di fili spinati ed il surf subì un altro momento di arresto. Conclusa la guerra, il grande passaparola effettuato dai soldati che erano transitati dalle Hawaii, vide l’espansione di questa disciplina: i surfisti invasero onde e spiagge come non mai.
Un aiuto alla divulgazione arrivò anche dall’industria cinematografica, con film come “The Endless Summer” del ‘66, “Un mercoledì da leoni” del ‘78 e “Point Break” del ‘91. Dalla discografia con gruppi musicali e cantanti come “The Ventures”, “The Beach Boys” più recentemente Ben Harper e Jack Johanson.
Nel 1960 “Surfing Magazine” fu la prima rivista specializzata del settore. L’interesse che questo movimento creò nel mondo dei media fece sì che lo sport divenne stile di vita, con un proprio gergo, un abbigliamento ed una visione spirituale del mondo.
L’incontro con la cultura hippie avvenne nel ’67 a Laguna Beach (California), durante la famosa Summer of love, una fusione atipica e rivoluzionaria che partorì quello che Timothy Leary nel ‘76 poi definì “un misticismo spirituale caratteristico di Laguna beach: un misticismo surf“.
Con gli anni ‘90 il movimento si lasciò alle spalle le contestazioni hippie, l’era punk e la corrente psichedelica. L’immagine dei ragazzi ribelli, che si concretizzava in emarginazione sociale, si trasformò e finalmente divenne uno “sport pulito”, conforme a tutte le età e generazioni, con una storia di cui tutti, ora, potevano incondizionatamente goderne il fascino. Quello che oggi arriva al grande pubblico è la visione di una pratica fresca, giovane e soprattutto ecologica, rispettosa del mare e dell’ambiente.
Il Surf è arrivato a toccare tutte le coste ventose, coinvolgendo i cinque continenti.
Le tavole e loro evoluzione
La costruzione delle tavole è sempre stata una questione personale. Molti shaper sono anche surfisti. Progettare è una impresa ingegneristica, abbinata al caso; tentativi ed errori, sperimentazioni in acqua e modifiche, ma soprattutto amore per questo sport.
Le tavole usate dai polinesiani nell’ottocento erano di due tipi: “Olo” 14-16 ft (4) e “Alaia” 10-12 ft. Il legno utilizzato veniva dagli alberi Wili Wili, Ula e Koa (5).
I primi anni del ventesimo secolo videro l’inizio di una evoluzione: le tavole e la loro lunghezza, che passò a 8-11 ft.
Iniziò il cambiamento anche il modo di surfare. Rabbit Kekai inventò ed integrò un nuovo stile chiamato Hot Dogging che permetteva di surfare la parete dell’onda effettuando manovre strette ed elaborate.
Tom Blake nel ‘26 approntò la tavola cava per alleggerirne il peso, nel ‘34 inserì una pinna (fin) a poppa per darle stabilità e direzionalità. Sempre in quell’anno Wally Froiseth, John Kelly e Fran Heath lavorano sulla riduzione della poppa rastremandola e arrotondandola, le nuove tavole vennero chiamate Hot Curl. Il materiale rimaneva sempre il pesante legno di sequoia e di koa, ma iniziava a prendere piede legname sensibilmente più leggero come la balsa sudamericana e il compensato.Nel ‘46 Pete Peterson per la prima volta ne costruì una usando la fibra di vetro con anima di legno. In quegli anni Bob Simmons diede alle tavole una leggera incurvatura denominata Rocker, usata ancora oggi, serviva ad evitare che nose e rail si immergessero e sul tail fu il primo ad inserire due pinne ( vedi fig.). Fu sempre lui il primo a costruire una tavola con nucleo di polistirolo racchiuso in un sottile strato di compensato, con rail in legno di balsa e rivestita in fibra di vetro, la chiamò sandwich. Dale Velzy, californiano, surfista ma soprattutto abile shaper, mise insieme tutte le innovazioni e le migliorò. Le sue tavole divennero molto richieste negli anni ’50.
La sperimentazione sulla fibra di vetro continuava, ma la balsa e il legno facevano ancora la voce grossa nella costruzione. Le misure rimanevano di 9-11 ft.
In questo periodo la voglia di alcuni surfisti di cavalcare le grandi onde hawaiane portò George Downing a sviluppare il “gan” dalle forme lunghe e strette che lo rendevano facile nella remata sull’onda e nel controllo sulla parete durante la navigazione. La pistola era ed è la tavola per cacciare le big wave.
Gli anni ‘70 videro irrompere sulla scena lo shortboard. Le misure medie scesero da 10 a 6 ft, la diminuzione del peso dovuto ai materiali come, vetro resina e schiume di poliuretano donarono a queste tavole velocità, manovrabilità e aggressività, quello che le Longboard usate fino ad allora non permettevano di fare: vennero chiamate “pocket rocket”.
Pat O’Nill creò il Leg Rope (6) per la soddisfazione dei surfer frustrati. Prima, perdere la tavola durante una caduta voleva dire farsi una nuotata fino alla spiaggia per recuperarla.
Un australiano, Shane Steadman, inventò la tavola Standard popout fabbricata in serie, con tutte le qualità degli short moderni ma a prezzi contenuti.
Nel 1981 il surfista australiano Simon Anderson progettò la tavola Thruster con tre pinne. Il design prendeva le migliori caratteristiche dei sistemi a pinna singola e doppie, facendole lavorare armoniosamente insieme e dando alle tavole ancora più controllo e manovrabilità.
Gli anni 90, infine, videro la diffusione di massa di questo sport. La necessità di fare viaggi sempre più frequenti e più distanti, creò la condizione ideale per l’invenzione e la diffusione delle pinne rimovibili, che permettevano di trasportare più facilmente la tavola, e di sostituirle a seconda del tipo di onda che si doveva affrontare.
La fine del secolo e l’inizio degli anni duemila videro la sperimentazione su materiali e forme per continuare a garantire performance e sensazioni sempre migliori.
Un accessorio sopra tutti ha dato un contributo allo sviluppo di tale disciplina nel mondo: la muta.
Il suo utilizzo ha portato uno sport praticato in climi tropicali o esclusivo dei periodi estivi, in acque generalmente calde, ad essere fattibile anche a latitudini fredde. Derivato dalla muta da sub, nel tempo sviluppò caratteristiche proprie: l’elasticità da permettere un agile movimento di gambe e braccia, la vestibilità per impedire un eccessivo ricambio d’acqua, cuciture resistenti e ben protette e la cerniera sulla schiena in modo da impedire abrasioni alla pelle dovute al continuo sfregamento durante la nuotata.
Ecco la storia dietro alla frase “andiamo a prendere un’onda” .
1) Plasmatore, costruttore di tavole da surf.
2) Capodanno Hawaiano in onore del Dio Lono. Con le grandi mareggiate invernali gli hawaiani fermavano ogni attività, festeggiando con musica, danze, canti e tornei di diversi sport incluso il surf.
3) Festa istituita nel 1946. Sei settimane una per ogni isola (Maui, Oahu, Kauai, Lanai, Molokai e Big Island) sul folclore e la cultura Hawaiana.
4) Ft o piede: unità di misura anglosassone corrispondente a 30.48cm.
5) Alberi endemici delle Hawaii.
6) Laccio da gamba o Leash.